Digitale, sostenibile e flessibile rispetto ai continui cambiamenti del quadro sociale, urbano ed epidemiologico, ma soprattutto una ‘città nella città’ destinata a diventare un vero e proprio driver di rigenerazione urbana. Questo l’ospedale del futuro secondo il progetto di ricerca Joint Research Platform di Politecnico di Milano e Fondazione Politecnico di Milano, che vede fra i suoi partner strategici anche Deerns Italia, società di ingegneria per l’edilizia sostenibile. Ne abbiamo parlato con Arianna Surace, che di Deerns Italia è Business Development Manager.
Come si approccia dal punto di vista degli investimenti ancor prima che del progetto un ospedale?
“È fondamentale che anche noi progettisti mettiamo il tema economico al primo posto dei nostri ragionamenti. La voglia di innovazione e di investire nella sanità poi effettivamente si scontra con i soldi che le aziende ospedaliere hanno a disposizione. Per questa ragione, è positivo avere al tavolo del Jrp anche le aziende ospedaliere, sia private, sia pubbliche. Avere questa occasione di incontro tra noi progettisti e fornitori di tecnologia è un’esperienza unica. Sono stati proprio loro a lanciare il warning in relazione alla sostenibilità economica, altrimenti tutti gli sforzi di andare verso l’ospedale del futuro avrebbero incontrato molte criticità. Di lì, il ragionamento in termini di investimento, ma non soltanto come Pnrr, donazioni o altri metodi che portano capitale nella sanità, ma anche considerando che ogni scelta progettuale ha sicuramente un costo iniziale, ma anche un ritorno di investimento. Per assumere decisioni e valutare se la strategia progettuale è valida, tutti ci siamo resi conto che deve essere analizzato anche l’aspetto di quanto è l’investimento iniziale rispetto al ritorno di investimento nel tempo. Se si ragiona in questo modo, l’impatto è minore rispetto a quando se si guarda al solo costo iniziale. Poi c’è un altro tema, che è quello della scalabilità. Un investimento non deve essere fatto al 100% al tempo zero. Noi progettisti crediamo molto nella progettazione in evoluzione. Significa pensare sì al punto di arrivo, ma poi strutturare il progetto secondo una implementazione nel tempo. Questo prevede uno sforzo progettuale diverso, una conoscenza dei temi molto più approfondita e una complessità maggiore. Questo vuol dire anche che il progettista deve avere davvero tanta esperienza e deve immaginare cosa è necessario subito e cosa può essere demandato, ragionando sul concetto di predisposizione, perché nessuno vuole ovviamente smontare un controsoffitto in un ospedale funzionante o fare lavori di edilizia in un blocco operatorio che sta operando. Tutto deve essere predisposto in modo che gli investimenti futuri di ampliamento, miglioramento e flessibilità dell’ospedale siano il meno possibile invasivi dal punto di vista dei lavori che si vanno a fare quando l’ospedale è operativo”.
Un esempio di ritorno dell’investimento?
“Lo staff medico è sicuramente uno dei fattori di costo di un ospedale. Si parla di moltissimi addetti con molte mansioni. Una delle analisi e feedback che abbiamo ricevuto è stata la perdita di tempo considerevole dello staff medico a tutti i livelli per due ragioni: aiutare i pazienti/visitatori a orientarsi nell’ospedale, cosa non banale. E la ricerca degli asset medicali: dovere andare a cercare i presidi ospedalieri perché non è chiaro dove siano stoccati, se sono stati sterilizzati eccetera. Questi due aspetti, in particolare, possono essere risolti con la digitalizzazione. Un edificio dotato di soluzioni digitali che possono aiutare a identificare percorsi, persone e asset possono ridurre notevolmente la perdita di tempo degli operatori in attività non ‘core’. Quindi, andando a stimare la percentuale di tempo persa dagli operatori e moltiplicandola per il loro costo orario, si va a identificare un ‘saving economico’ specifico che può portare non alla riduzione del personale, perché non è questo l’obiettivo, ma all’efficientamento del lavoro. Un altro esempio, la necessità di sanificare ambulatori e altri spazi: più è efficace il sistema, meno costi genera. Un ambiente sanificato due volte, perché non è stato identificato come ‘già’ sanificato, è un costo per l’azienda. L’idea, dunque, è usare la tecnologia per organizzare ed efficientare il più possibile ambienti complessissimi come sono gli ospedali, dove l’efficienza, malgrado la buona volontà di tutti, è presente”.
Questo modo di procedere trova già una ricaduta pratica?
“Stiamo già lavorando per spostare l’asticella in avanti, nell’ottica dell’innovazione come sostenibilità economica. Lo facciamo anche sulla parte di efficientamento energetico, che è il nostro core business. Sicuramente, un altro ambito dove un certo tipo di progettazione piuttosto che un’altra può fare la differenza. La convinzione del passato – che l’edificio ospedaliero sia energivoro perché deve essere sempre in funzione, e che non sia green, perché deve essere sicuro – nel tempo è cambiata. Si è capito che anche l’edificio ospedaliero può essere energeticamente efficiente. Questo rappresenta un chiarissimo ritorno di investimento. La bolletta scende, i costi per la produzione di energia si riducono. Si tratta di sapere progettare avendo un grosso focus sul risparmio energetico, che è quello che facciamo da anni. Per il futuro lanceremo un metaprogetto. Non un progetto fatto di piante, sezioni, schemi e relazioni: non un prototipo che, fatto e finito, venga costruito in Italia come in Indonesia. Non è possibile arrivare a un livello di dettaglio troppo spinto perché si andrebbe a creare qualcosa che è perfetto in una situazione e non in un’altra. Quindi, l’idea è arrivare a un metaprogetto, a linee guida che si concretizzino però anche in schemi fisici. Il Politecnico ci aiuterà a capire dove mettere la barra, dove fermarsi e dove andare un po’ più avanti nella definizione delle linee guida per assicurare che l’impostazione progettuale cada nella direzione giusta”.
Progettare nell’ambito di una rigenerazione urbana e di riqualificazione di edifici esistenti, due aspetti estremamente attuali in grandi città e non solo.
“Anche il Pnrr è andato nella direzione della riqualificazione e della territorialità. La linea guida spinge su case e ospedali di comunità che sono sostanzialmente un ‘lightcare’. Le case di comunità sono assimilabili ad ambulatori e gli ospedali di comunità, anche se hanno un livello di cura leggermente minore, essendo di più favoriscono la territorialità. L’Italia è andata in questa direzione. Non pensiamo più solo ai grandi ospedali decentrati per le grandi cure, dove però la popolazione deve spostarsi considerevolmente per arrivarci, ma creiamo anche in alternativa queste situazioni. Abbiamo un patrimonio edilizio notevole e datato. Non possiamo prescindere dalla conoscenza di questo fatto. Sicuramente decidere che le nuove strutture sanitarie possano essere destinate in edifici esistenti e centrali nelle città crea rigenerazione urbana, anche perché l’ospedale non va visto solo in quanto sale operatorie e degenze. Sempre di più si va verso la direzione di rendere l’ospedale un luogo multifunzionale. Non voglio dire che il piano terra di un ospedale diventerà un centro commerciale, perché non è vero. Però sicuramente può diventare un luogo che, progettato in un certo modo, invece che respingente diventa accogliente. L’idea è creare piazze e aree interne verdi che siano anche votate a quello che per noi è il favorire il processo di cura che ormai molti studi correlano alla qualità dell’outdoor”.
Se dovessimo indicare le priorità dell’ospedale del futuro?
“Indicare priorità è molto difficile, anche perché ogni specialista ha le sue. Si è parlato tanto del fatto che un ospedale non dovrebbe avere una vita superiore ai 50 anni. Questo è il lasso di tempo in cui gli studi indicano che inizia a diventare obsoleto e difficilmente recuperabile. Quindi, è chiaro che pensare a un ospedale che abbia la sua massima efficacia nei 50 anni e poi sia facilmente riconvertibile o svuotabile diventa importante. Abbiamo progettato Il Martini Hospital in Olanda, pluripremiato per il fatto che è stato concepito per essere smantellato dopo 50 anni. Temo che in Italia questo concetto farà fatica a prendere piede. Ma anche se non lo si smonta, l’ospedale può essere riconvertito in qualcosa d’altro. Quindi la flessibilità è un’altra parola chiave, che sta in cima alle priorità. La tecnologia medica avanza. L’impianto deve andare alla stessa velocità della tecnologia. Abbiamo ad esempio progettato sale ibride in un edificio che inizialmente non le prevedeva. Il fatto di convertire sale operatorie tradizionali in ibride è stata una sfida enorme. Se già il progetto è flessibile all’inizio, è facile andare alla stessa velocità della tecnologia. Altro tema importantissimo è l’espandibilità. Non è pensabile che con una pandemia gli ospedali abbiano una reattività ‘zero’. Di fronte a una situazione del genere, l’ospedale deve essere un edificio in grado di riadattarsi ed espandersi per superare situazioni di grossa crisi. Espandersi anche in termini di volumi. Si sta pensando a soluzioni modulari, secondo cui, in certe situazioni, l’ospedale può crescere di volume aggiungendo moduli che poi, a emergenza conclusa, possono essere smontati”.
Edifici non solo aggiornati dunque, ma riconvertiti anche nella destinazione d’uso?
“Che l’edificio possa rinnovarsi ancora e dunque essere ancora un ospedale competitivo è estremamente difficile. Più facilmente può diventare uno spazio commerciale, un terziario. L’ospedale lo si costruisce da un’altra parte. Pensiamo alla sola altezza interpiano di un ospedale che negli anni è quasi raddoppiata. Il nuovo polo delle chirurgie del San Raffaele è agganciato con una sorta di ‘onde’ a un edificio degli anni Novanta. Era impensabile che il nuovo edificio fosse mantenuto allo stesso piano perché ciò che oggi passa in un controsoffitto è completamente diverso rispetto a quello che passava qualche anno fa”.
In Italia la difficoltà è legata agli investimenti o ancor prima è un tema di ordine culturale, di ostacoli burocratici?
“Noi abbiamo periodi molto più lunghi in fase di gara e di assegnazione rispetto a quanto accade all’estero. Sono in fase di progetto gare iniziate 5 anni fa. In questi casi è difficile fare innovazione. La burocrazia è un ostacolo. Ci possono essere anche fattori culturali nel senso che all’estero l’apporccio al cambiamento nella sanità è più facilitato. Anche la collaboraziopne tra progettisti e medici è molto forte. Si entra davvero nel merito dell’organizzazione dell’ospedale. Questo da noi non è così scontato”.