Nel settore del real estate sono i primi sei mesi a determinare l’andamento dell’anno e sono lo specchio di quanto è iniziato l’estate precedente. Ecco perché la performance del primo semestre del 2023, che ha visto una importante contrazione degli investimenti immobiliari, nell’ordine del 50-60%, non ha stupito più di tanto gli operatori. Il “fortissimo rallentamento” si era già reso evidente nell’ultimo trimestre dell’anno prima. Proprio nel quarter nel quale solitamente si assiste ad una accelerazione per chiudere i deal. Tutto ciò ha evidentemente avuto una ricaduta sul primo semestre dell’anno in corso. Resta tuttavia altrettanto evidente che l’interesse degli investitori continua a riguardare trasversalmente tutte le asset class. Ne abbiamo parlato con Silvia Gandellini, Head of Capital Markets and Head of A&T High Street & F&B di CBRE Italy.
Come possiamo immaginare si possa concludere il 2023?
“Il 50% in meno rispetto allo scorso anno difficilmente si potrà recuperare, perché significherebbe che il terzo e quarto quarter dovrebbero crescere del 100%: qualsiasi perdita difficilmente si recupera soprattutto su queste percentuali importanti. Ad oggi non è facile fare una previsione, ma riteniamo che nel terzo trimestre si delineerà più o meno il volume dell’anno prossimo. Sono molto positiva che l’attività del Q3 e Q4 sarà migliore rispetto a quella del semestre precedente. Stiamo lavorando su molte operazioni che si allungano magari solo nei tempi, ma questo ovviamente ha un impatto. Vedremo a settembre se le banche amplieranno i flussi di erogazione dei finanziamenti. Tra l’altro, finanziamenti che si dovrebbero chiudere a fine luglio ci sono e questo è ovviamente molto interessante. Il ruolo delle banche è cruciale nel fare ripartire l’intera macchina. Del resto, sono minori gli investimenti ‘full equity’ rispetto a quelli nei quali si fa ricorso alla leva. Questo è insito nell’investimento immobiliare. La banche sono un presupposto. Mancando quest’ultimo, diventa difficile concludere un’operazione”.
Si può dire che l’atteggiamento delle banche nell’erogare credito in queste situazione sia una cartina tornasole dello stato di salute del settore o c’è un eccesso di prudenza da parte degli istituti che allargano i cordoni solo nel momento in cui c’è certezza del ritorno?
“Le banche sono prudenti perché vogliono avere certezza del sottostante immobiliare, vogliono capire se il sottostante regge l’investimento. Questo sicuramente è un punto di attenzione per le banche che guardano allo sponsor, ma ancora di più ai fondamentali immobiliari. Inoltre, prestano attenzione al flusso di cassa, che deve essere nel periodo del financing realistico e sostenibile. Gli istituti bancari sono particolarmente cauti e privilegiano i finanziamenti che tengono conto di tutte le tematiche legate alla sostenibilità, agli Esg Criteria. Un aspetto fondamentale soprattutto per alcune asset class, quali ad esempio gli uffici perché garantiscono un prodotto di qualità, che non diventa obsoleto o è inficiato da uno sconto sul prezzo perché l’immobile non risponde ai requisiti di sostenibilità. Su questo le banche hanno un punto di attenzione perché rischiano, dal loro punto di vista, di finanziare prodotti obsoleti e dunque poco rivendibili sul mercato, mentre la banca ha assolutamente necessità di essere garantita rispetto all’exit. In passato si sono trovate a finanziare prodotti che oggi, messi in vendita, o non sono vendibili o lo sono a prezzi anche inferiori rispetto al finanziamento”.
Tornando ai finanziamenti, a cosa andremo incontro?
“A un periodo di price discovery. Prevediamo che per i prossimi mesi ci possa essere un leggero incremento dei rendimenti immobiliari e quindi questo agevolerebbe l’incontro tra domanda e offerta. Torniamo al nuovo mercato dei prezzi. In questo, le banche hanno sempre un ruolo, perché la Banca centrale europea dovrà definire i tassi di interesse che dovrebbero ulteriormente aumentare per tenere sotto controllo l’inflazione. In questo senso, non ci sono tante scelte da fare. Chiaramente, se i tassi dovessero ancora alzarsi, ovviamente i rendimenti immobiliari si dovranno alzare se non proporzionalmente, almeno per poter essere competitivi e per consentire di montare il finanziamento come sottostante della transazione immobiliare. E’ tutto legato: si tratta di un adeguamento del mercato finanziario, di cui il real estate è una parte. Con il repricing, i rendimenti si sono alzati dall’inizio dell’anno e questo ha aiutato moltissimo. Stiamo parlando di Europa. Anche di Italia, ma si tratta di un contesto molto più allargato. Se gli investitori riuscissero a intravvedere una stabilità – anche a medio termine, a tre-quattro mesi – li porterebbe a una accelerazione. Non userei il termine ‘ripartire’ perché non è corretto. Piuttosto, accelerare l’attività di investimento. E’ solo una questione di ‘aggiustamento del prezzo’”.
L’e-commerce ha un ruolo fondamentale nella richiesta di spazi e magazzini. Visto che il mercato italiano rispetto a quello europeo soffre un gap importante, come immagina la possibilità di crescita?
“Abbiamo notato un rallentamento importante della richiesta da parte degli operatori legati alla distribuzione dei prodotti e quindi all’e-commerce. Amazon stessa ha rivisto i propri piani di espansione, che forse erano troppo ambiziosi. Il post pandemia ha fatto registrare una contrazione e una riduzione della crescita delle penetrazione dell’e-commerce che, se pure in crescita, vede un rallentamento. Questo vuol dire che stiamo arrivando piano piano a un equilibrio, perché chiaramente l’e-commerce non può crescere in eterno. L’Italia effettivamente è più indietro rispetto ad altri paesi, in particolare il Sud Italia, ma sconta anche una conformazione fisica e infrastrutturale che non consente una crescita importante quanto quella che è avvenuta in altri Paesi. Un aspetto interessante riguarda il grocery: eravamo abituati ad avere grandi supermercati e ipermercati che stanno vedendo attraversando una fase di flessione delle vendite non food. ecco che tutte le catene, in maniera generalizzata, stanno rifocalizzandosi sul comparto food e il non food si riduce drasticamente. Gli spazi che restano vuoti diventano molto utili per essere organizzati come magazzini legati al delivery. Quindi anche in questo caso, grosse catene di grocery che cercano spazi ulteriori rispetto a quelli che hanno direi che non rappresenta è un trend”.
Negli uffici non c’è volontà di ridurre gli spazi?
“Non generalizzato. Eventualmente il mondo bancario o quello assicurativo, che hanno grandi back office, possono guardare al remote working come a una possibilità per l’azienda di ridurre gli spazi. Ma si tratta di un’opzione molto specifica e relativa a chi fa un certo tipo di lavoro, molto individuale. E’ legata alla settorialità. I famosi monotenant del palazzo di una banca o di una assicurazione, dove molti dipendenti fanno un lavoro senza scambio con l’esterno, potrebbero rivedere la modalità di gestione degli spazi, ad esempio convertendo quelli che restano vuoti in luoghi di socialità. Queste compensazioni, questo cambio strutturale non porta a una perdita di metri quadri. Ci sarà un uso più efficiente e intelligente di spazi intesi come desk per employee. Ma va anche detto che ad esempio Milano, a differenza di Londra o New York, ha tempi di commuting ridotti che rendono più facile raggiungere il posto di lavoro”.
Nell’asset class degli alternative -data center, healthcare, senior living, infrastrutture- che sviluppo immaginate?
“il mondo dei data center fa parte di quello delle infrastrutture, come anche i centri di ricarica, visto che andiamo incontro a un mondo elettrico. I data center hanno un mercato molto specifico fatto di operatori che arrivano prima degli investitori perché sono playeri dell’energia che vendono energia e devono garantire continuità. Mentre il mercato ad esempio Uk è molto più maturo rispetto a quelli del Continental Europe, Milano è la prima città in Italia presa in considerazione e oggi ci sono almeno venti operatori di data center interessati a sviluppare il proprio business. Siamo all’inizio di una fase di crescita di questo segmento. Oggi assistiamo alla realizzazione di due o tre data center a Milano o nei suoi paraggi, ma riteniamo che sia solo l’inizio. Il mercato secondo a Milano sarà quello di Roma. poi sicuramente Genova, grazie alla fibra che arriverà sott’acqua. Interesserà piano piano, a macchia d’olio, un po’ tutta l’Italia. Certamente per questo ci vorrà del tempo, ma è una delle sfide che porteranno crescita al mercato immobiliare, pur non essendo un prodotto strettamente di investimento immobiliare, ma molto specifico che ha alcune caratteristiche peculiari: la potenza, la dimensione, la location. Oggi sono gli operatori specifici di data center che comprano il sito, il terreno, sui cui si montano poi gli investimenti immobiliari”.
Il senior living fatica a crescere, l’healthcare e l’education focalizzano l’attenzione degli investitori
“Si tratta di tema molto più legato alla cultura del nostro paese, che è ancora distante dal concetto di senior living all’americana: Per altro, in Italia non c’è ancora una legislazione che in qualche modo possa favorire. E’ anche una questione di redditività e di mancanza di operatori di questo settore, con la conseguenza che gli investitori stessi fanno fatica a investire. A differenza di quanto accade rispetto a data center, studentati, hotel dove gli operatori sono chiarissimi. Nel senior housing purtroppo no. C’è ancora molta nebbia. Non vedo a brevissimo una crescita di questo settore rispetto ad altri. Il mondo della cura, invece, è un’area di grande interesse. Le Rsa hanno subito l’impatto del covid e lo stanno ancora vivendo, ma si tratta di un prodotto a lungo termine, che sicuramente continuerà a crescere. L’interesse degli investitori c’è, è alto, ma con grande attenzione alla sostenibilità dei canoni. E’ solo questione di tempo perché si possa ritrovare l’equilibrio. C’è anche molto interesse sulle alternative legate al mondo della sostenibilità healthcare e delle strutture ospedaliere legate al benessere: una valida alternativa per gli investitori sono infatti le cliniche del benessere che non puntano su una nicchia specifica in termini di età o anagrafica, ma possono guardare a un più ampio il basket dove andare a pescare, persone con una certa redditività. Un’altra area dove purtroppo in Italia manca il prodotto è quella legata alla education: il mondo delle scuole, delle scuole private, delle università. Il livello della scuola statale è ottimo ma stanno crescendo realtà internazionali, università private, valida alternativa al numero chiuso delle statali. Questa crescita è prevalentemente milanese e romana, ma piano piano sta allargandosi anche a città come Padova, Pisa, dove ci sono le nostre eccellenze universitarie. Gli investitori dunque come alternativi rispetto all’ufficio, al retail e al living, guardano agli investimenti nell’education se la scuola è internazionale con buoni bilanci, che funziona bene ed è in crescita”.
Non è che si punta sempre e solo su segmenti luxury?
“Sarebbe così se fosse lasciata in mano completamente ai privati perché devono fare tornare i conti. Ma se anche il mondo degli studentati -e questa per noi è una battaglia- è fondamentale. Non riusciamo a fare comprendere al governo del territorio pubblico e dunque alle municipalità in primis, l’importanza di fare accordi con il privato, con lo sviluppatore privato, per fare fronte alla costruzione di uno studentato anche a canoni calmierati o sostenibili. La municipalità non può da una parte favorire questi accordi e dall’altra pretendere costi eccessivi in termini di oneri di urbanizzazione, costi di costruzione, Imu, perché è chiaro che l’investimento per un privato deve avere un ritorno, anche minimo. E’ un passaggio culturale: serve questo concerto, il privato da solo non può farlo perché è antieconomico”.